Ritrovata la donna volante di Genni nella Fabbrica dei Mattoni Rossi

Dalla vetrina del negozio Olivetti di Napoli ai soffitti della Fabbrica di Mattoni Rossi.

Danneggiata dai bombardamenti del 1943, era stata recuperata e portata a Ivrea

È sicuramente stata una scoperta inattesa, anche emozionante. Dopo molti anni è tornata alla luce la statua che abbelliva la vetrina del negozio Olivetti di Napoli, rovinata dal bombardamento del 1943, dal tempo passato e dall’incuria. Però è bastato vederla, anche in queste condizioni, per comprendere il senso di bellezza e stile che caratterizzava quei punti vendita già a partire dagli anni ’30, e quindi la visione del ruolo dell’impresa che era nella mente dell’imprenditore Adriano fin dagli inizi della sua avventura.

Alberto Zambolin

 

Racconta Alberto Zambolin di Icona:

“Era il 22 novembre 2018 e in una tipica giornata autunnale che rende tutto grigio e neutro compreso l’umore, mi recai alla Mattoni Rossi per un incontro con Beniamino de’ Liguori Carino. Ci eravamo sentiti telefonicamente qualche giorno prima

Alberto, verrò su ad Ivrea nei prossimi giorni, possiamo vederci ? Vorrei che mi accompagnassi a visitare la Mattoni Rossi, sono tanti anni che non ci vado ed è sempre una emozione per me.

Che onore per me accompagnare Beniamino nella Fabbrica che fu costruita da suo bisnonno Camillo e poi gestita ed ampliata da suo nonno Adriano Olivetti. Certo che ci sono! Appuntamento alle 15.30 e arriviamo entrambi puntuali, entriamo dalla portineria del Pino di via Jervis e andiamo alla Mattoni Rossi. Ad un certo punto Beniamino mi interrompe e comincia a raccontare una storia che ha dell’incredibile.

Io mi ricordo di essere venuto qui tantissimi anni fa con mia mamma e di aver fatto un giro di visita come oggi. In particolare ricordo che andammo nel sotto tetto e ho vivida nella memoria un’immagine di aver visto che vi era depositata una statua, probabilmente un residuo dell’arredo di qualche negozio di Olivetti. Possiamo fare un giro nei solai?

Per chi non ci fosse mai stato il sotto tetto della Mattoni Rossi è completamente vuoto da anni seppur in buono stato manutentivo. Camminavamo nel solaio, a sinistra le finestre che danno sui cortili interni, a destra il tetto che sopra le nostre teste declinava fino ai muri perimetrali, e alcune reti che sembrano delimitare delle zone di magazzino, di stoccaggio, alcune anche con delle porticine metalliche di chiusura. Camminavamo sotto le travi portanti, era tutto vuoto intorno a noi.

Alza la testa!

mi disse improvvisamente Beniamino. Che brivido, che emozione, sopra di noi coricata e legata ad una trave da un filo di ferro si stagliava una statua in gesso bianco. Da dove veniva, come era giunta lì, perché lì vi era rimasta? Chi l’aveva scolpita?

Così cominciò un’illusione e una appassionante ricerca.

Per due anni abbiamo tenuto riservata la notizia, poiché non si sapeva con esattezza chi fosse l’autore e quale il valore; durante questo periodo, la statua è stata presso la Sovrintendenza di Venezia che ne ha appurato l’originalità.

Ora che è tornata a casa, abbiamo deciso di raccontarvi questa storia.

La biografia dell’artista, Jenny Wiegmann Mucchi

Jenny Wiegmann Mucchi nasce nel 1895 in una Berlino prossima alla secessione.

Suo padre Fritz è maestro pasticciere e gestisce assieme alla moglie Paula un negozio di dolci in un palazzo settecentesco nel centro di Spandau. In seguito, quando Jenny sarà un’artista riconosciuta a livello internazionale, molti amici additeranno proprio nell’abilità plastica di papà Wiegmann l’origine del talento scultoreo della figlia che pur aveva sostituito con gesso e marmo lo zucchero e il marzapane paterni.

Molto presto Jenny manifesta propensione per il disegno tanto che nel 1917 viene iscritta a una scuola privata di Berlino nello «stesso periplo di studio che si impose anche a Käthe Kollwitz a causa di quelle barriere pregiudiziali alla partecipazione femminile nelle scuole pubbliche superiori». I suoi maestri di scultura la guidano alla scoperta dell’arte greco-romana, mentre in ambito pittorico suo riferimento è la Secessione Berlinese. Come Barlach, uno degli scultori più interessanti del tempo, Jenny lavora anche il legno riscoprendolo come rinnovata materia prima capace di effetti e possibilità di enorme interesse. Non ci stupisce, dunque, come nel corso degli anni Jenny non abbandoni mai totalmente la lavorazione di questo straordinario e vibrante materiale tanto da realizzare ancora nel 1950 il suo emozionante No alla guerra, scultura pacifista intagliata nella trave di una casa bombardata durante la seconda guerra. Ma l’impegno di Jenny ha origini già nel 1918 quando partecipa insieme ad altri intellettuali di sinistra ai moti rivoluzionari di Monaco, presupposto di quella Repubblica d Weimar cui ancora nel 1956 Jenny si ispirerà per il celebre e impressionante Busto di Rosa Luxemburg.

Nel 1920 Jenny, allora venticinquenne, sposa il suo compagno di studi Berthold Müller-Oerlinghausen.

Ma è in Italia che Jenny conosce il suo grande amore, il pittore Gabriele Mucchi. Il rapporto tra i due si rafforza pian piano. Così Jenny e Gabriele decidono di intraprendere una nuova vita insieme. Prima a Parigi, come i molti Italiens de Paris, poi in Italia. Dal benessere economico, Jenny si trova catapultata in una quotidianità spesso fatta di stenti e di fame. Ma Parigi è la città dell’arte e oltre agli artisti internazionali, è il luogo che offre spazio a De Pisis, De Chirico, Alberto Savinio, Severini. Ed è proprio a Parigi che avviene la prima importante mostra di Jenny, quella del 1932 presso la Galerie Bonaparte.

L’anno seguente Jenny e Gabriele rientrano a Milano ed espongono alla Triennale del 1933. È il battesimo d’arte di una nuova vita e di un nuovo entourage, quello che si riunisce in Via Rugabella nella casa laboratorio scelta da Jenny vicino a Porta Romana. È qui che i Mucchi frequentano Birolli, Guttuso, Vitali,  Cantatore, Persico, Pagano, Veronesi, Mazzucchelli, Gatto, Pino, Carrieri, Sinisgalli, Quasimodo. Un gruppo di artisti che si confrontano, ispirano e aiutano a vicenda. Più tardi arrivano anche le mostre di Corrente, movimento artistico ispirato alla rivista di Ernesto Treccani e imperniato sui valori di un’arte di opposizione a quella promossa dal regime. L’arrivo della guerra, quindi, non è che l’occasione per Gabriele e per Jenny (che ormai si è auto-ribattezzata Genni) di dimostrare il proprio impegno politico. Mentre il pittore si rifugia in montagna al fianco della resistenza, Genni diventa staffetta partigiana e si adopera, lei tedesca, per la salvezza di molti amici ebrei. Il 25 aprile e il dopoguerra rappresentano così una doppia liberazione e il ritorno al lavoro artistico, anche con l’importante personale del 1947 alla Galleria Borgonuovo. Tra le opere su cui la guerra lascia il segno figurano il Partigiano torturato e il Monumento ai partigiani di Bologna. Ma l’impegno di un’arte che si fa anche politica continua con altri temi e con opere come le Donne di Algeri, il Lumumba, La Libertà, Il grido. Genni si spegnerà a Berlino nel 1969, mentre sta lavorando alla sua ultima opera, Danza Macabra: un personaggio traballante, avvolto in un grande e informe mantello, da cui emergono tutta la sofferenza e la consapevolezza della malattia che si aggrava e della morte ormai vicina.

Il negozio Olivetti di Napoli

«Casabella» nel 1938 affianca quest’opera «ai negozi Parker [di Persico e Nizzoli], al negozio Rubistein, a quello di Nivola e Pintori allestito a Milano […] per Olivetti».

 L’idea iniziale di sostituire i due pilastri di mezzo con due sottili colonne d’acciaio è riproposta, ma senza più distruggere l’impianto simmetrico. Le due luci laterali vengono trasformate in vetrinette, mentre i pilastri che le dividono dalla grande vetrata inserita al centro sono mascherate da lastre di vetro opalino. Ne nasce un’unica parete a vetro; e, a sancirne la differenza dal resto della facciata lasciata intatta, interviene una cornice di marmo bianco.

La grande vetrata della vetrina centrale è però l’unica che lascia vedere l’interno del negozio, il quale appare a sua volta concepito come parte integrante dell’apparato espositivo.

Un banco trasparente lungo quasi sei metri ospita, in un supporto concavo che corre per tutta la sua lunghezza, una successione di macchine da scrivere di diverso colore, mentre una sorta di bugnato a conci piani in legno laccato è chiamato a fare da fondale. Una parte delle bugne (96 su 6 file) è sorprendentemente adibita a cassetti per gli accessori di vendita, e questi, aggiungendosi a quelli del banco-vetrina, consentono di eliminare ogni mobile contenitore che avrebbe occupato spazio prezioso in un locale profondo meno di cinque metri.

Ma le invenzioni non finiscono qui. Poiché sia il fondale parzialmente adibito a cassettiera sia il banco-vetrina devono lasciare un passaggio all’ascensore e non possono quindi raggiungere la stessa lunghezza della vetrata, viene fatta intervenire una scultura che si costituisce come centro necessario all’equilibrio compositivo.

Il punto in cui convergono le mani della figura di donna scolpita da Jenny Wiegmann Mucchi è una macchina da scrivere, ma tale fulcro è però anche in linea con l’inizio del bugnato e del banco vetrina. Così l’asimmetria del fondale trova in questo angelo senz’ali il suo contrappeso. Ne guadagna anche l’esterno dove la scultura sospesa dà maggiore autonomia alle nuove scansioni della parte vetrata, muovendola a un ritmo che sovverte la rigidità dell’impianto simmetrico.

All’interno, quel punto di inizio del banco e del bugnato viene prolungalo dal grande specchio disposto sulla destra a dividere il reparto cassa dalla zona centrale del negozio. Sulla sinistra invece una griglia metallica a tutt’altezza, destinata a fare da supporto a mutevoli messaggi pubblicitari, distingue, senza isolarlo dal negozio, il reparto riservato ai colloqui con il pubblico, dove l’unità con il resto dell’allestimento è stabilita da tre vetrinette luminose sovrapposte, anch’esse ospitanti macchine da scrivere.

A raccordare i due reparti laterali intervengono dei soppalchi disposti alle estremità e collegati da una balaustra che fa anche da cornice unitaria alla zona più propriamente espositiva.

Per creare ulteriori internità tra le nude forme, viene infine realizzato un calibrato sistema di illuminazione che utilizza ben «cinque diverse fonti luminose, a luce diretta e indiretta» (Un negozio, 1978).

Rimane solo il rammarico che, anche a seguito del cambiamento della ragione sociale, il negozio non sia stato conservato nella sua integrità.

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